“Sono timido ma l’amore mi dà coraggio…”
(Serenata rap, Lorenzo Jovanotti)
“Non sarebbe una vita più semplice senza la timidezza?” E poi, da dove nasce la timidezza?
Questoimprovviso rossore nel volto, il battito del cuore che accelera, lo sguardo si abbassae le spalle si stringono. Tutto intono appare immensamente grande, nella mente si affollano mille pensieri che si fatica a mettere in ordine; le parole sembrano rimanere bloccate sulla punta della lingua.
Eppure si vorrebbe dire, magari anche tanto.
Si vorrebbe alzare lo sguardo e incontrare il volto di chi ci sta davanti, condividere i pensieri che si alternano nella nostra mente, prendere parte a ciò che sta accadendo intorno a noi:
- parlare con i propri superiori al lavoro o esprimere un disappunto con un collega
- prendere parte alle chiacchiere con gli amici ed esprimere la propria opinione rispetto a quell’argomento che tanto sta a cuore
- porre una domanda, dire “non ho capito” (ad esempio a scuola) senza dover per forza arrossire o tenere per sé dubbi e domande (che a ben vedere sono dubbi e domande di tanti altri…)
- aspettare che sia l’altro a parlare, a chiedere, limitandosi “ad ascoltare”.
Ma cos’è questo turbine di sensazioni, emozioni, che all’improvviso sconvolge e blocca il nostro stare insieme agli altri?
Tanta complessità per una parola tanto semplice quanto “comune”: timidezza.
A chi non è mai capitato di ritrovarsi, almeno in parte, nelle situazioni psico-fisiologiche, appena descritte?
A chi non è capitato almeno una volta di avere l’irrefrenabile desiderio di “sparire”, di “farsi piccolo/a piccolo/a” per non essere visti? Di voler dire e fare qualcosa senza però riuscirci perché rossore, tremore e batticuore hanno avuto la meglio su di noi?
Per alcuni questi momenti sono occasionali, sporadici, riguardano precise situazioni. Per altri, caratterizzano la quotidianità (in un continuum che va dalla timidezza alla fobia sociale, che è ben altra cosa!) con tutta la fatica che ne consegue.
Dove nasce la timidezza?
timidi si nasce o si diventa? Dove affonda le sue radici?
Il termine viene dal latino “timeo- timere” che vuol dire appunto “temere” o dal greco “thimè” che significa “stima, venerazione”.
Queste due radici etimologiche ci dicono due cose fondamentali:
– prima di tutto la timidezza non è nata “nei tempi moderni”, anche se è innegabile quanto la società di oggi dia particolare valore e risalto all’estroversione e alla socievolezza
– in secondo luogo, nella timidezza gioca un ruolo cruciale non solo “la paura, il timore” di entrare in relazione, ma anche un aspetto a volte più nascosto e meno evidente, quale “l’atteggiamento reverenziale” nei confronti dell’altro.
Dove ha origine questo timore?
Secondo il presupposto teorico di chi scrive (basato sulle fonti riportate a fine articolo), la mente di ogni individuo è una matrice, ovvero è frutto di un intricato intreccio di elementi consci e inconsci, ma anche di stili affettivi ed emozionali, oltre che comportamentali, che ogni persona fa propri all’interno di tutte le esperienze di gruppo che vive nel corso della vita, a partire dalla primissima infanzia: da quelle familiari, a quelle sociali e culturali.
Quindi il bambino, fin da piccolissimo, forma attraverso le interazioni con l’ambiente dunque, una struttura mentale che gli permette di muoversi nel mondo, secondo la propria soggettività.
Ecco allora che alcune “tracce” della timidezza possono essere ritrovate più che in fattori biologici e genetici (di cui comunque alcuni studi ne attestano la correlazione) nelle esperienze del soggetto, oltre che nel contesto sociale di appartenenza.
- Esperienze con uno stile orientato alla critica frequente o anche all’ironia svalutante, possono inibire il bambino fino a portarlo ad una chiusura che può sfociare nella timidezza;
- così come una modalità orientata all’eccessiva protezione non permette di esplorare l’ambiente né di apprendere dai propri errori. Questo può, in alcuni casi, portare il bambino a percepirsi come poco adatto, inadeguato, a volte anche “sbagliato”.
Quando infine si inizia a capire che gli “altri” hanno una propria mente, dei propri pensieri e delle credenze, sopraggiunge quel timore (reverenziale) rispetto a ciò che si “penserà di noi”, aspetto su cui pone l’accento il termine greco “thimè”.
È possibile trasformare la timidezza?
Se dunque timidi non si nasce, ma in qualche modo “si diventa”, è possibile un cambiamento, da una timidezza che blocca a una timidezza come tratto da valorizzare?
Per farlo è necessario prima di tutto accettare di essere timidi, riconoscere che la timidezza non è una malattia, ma un insieme di emozioni, sentimenti, vissuti ed esperienze relazionali interiorizzate.
Essere delle persone timidi solitamente vuol dire anche aver sviluppato buone capacità di ascolto, di introspezione e di osservazione, di sè stessi e degli altri.
Perché non sfruttare queste competenze per trovare un nuovo posto “nel mondo” e nelle relazioni con gli altri?
Scrivere a volte aiuta molto a mettere a fuoco, a fare ordine laddove ordine non c’è, a vedere anche le cose da un punto di vista diverso, nuovo.
Se tutto, come è stato proposto, è nato da una “relazione” disfunzionale, non sarà forse proprio l’esperienza di altre relazioni, diverse, più aperte ad accogliere la propria diversità come peculiarità e non come criticità, a dare quel “coraggio”, a trasformare e ri–generare il nostro modo di pensarci con gli altri?
Accettare sé stessi, il proprio modo di essere, di sentire, non sempre è facile.
Non restare da soli è fondamentale.
Una volta che abbiamo capito dove nasce la timidezza, possiamo agire di conseguenza e questo significa fare un ulteriore passo, chiedendo anche aiuto, se necessario, un aiuto che sia qualificato e competente rispetto al tema che stiamo affrontando.
Una richiesta che per chi è timido può risultare molto complessa, ma che può rappresentare un ulteriore, importante passo verso il cambiamento.
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