La violenza psicologica nella coppia: come “s-mascherarla”?

da | Nov 11, 2020 | relazioni di coppia

La violenza psicologica all’interno della coppia è, probabilmente, la forma di violenza più diffusa ma anche quella che, paradossalmente, è più difficile da “riconoscere” e individuare!

La violenza psicologica si esprime attraverso modalità molto subdole: atteggiamenti, piccoli gesti, allusioni, critiche, accuse, ricatti, bugie… più che sul piano fisico si agisce sul piano verbale e non verbale, arrivando a ferire ferire nel profondo. Pensiamo a quanto dolorose possano essere alcune frasi, taglienti alcune parole, paralizzanti alcuni sguardi e assordanti alcuni silenzi.

Quale lo scopo, ci si potrebbe chiedere.

Rendere l’altro insicuro. “Offrirsi” come colui o colei che può “rassicurare”, ma in realtà controlla, assoggetta, predomina.

Sono modalità volte a denigrare l’altra persona, sminuire, svilire, minare l’autostima e l’immagine che si ha di sé stessi. 

È una forma di violenza che, come si vedrà più dettagliatamente in seguito, è strettamente legata ad un preciso modo di vivere e pensare la relazione con l’altro, in cui prevale la dinamica del potere e del controllo. Ecco perché non è necessariamente legata al genere di appartenenza (maschile o femminile) e può essere messa in atto sia da uomini che da donne. Si può infatti manifestare in vari altri contesti, oltre al rapporto di coppia, dal mondo del lavoro al sistema familiare, a quello amicale.

Quando si parla di violenza psicologica, inoltre, viene in mente subito la violenza fisica. In realtà non sono interconnesse: può esserci violenza psicologica senza che ci sia volenza fisica, mentre non c’è mai violenza fisica senza violenza psicologica.

Alcuni esempi di violenza psicologica

Obiettivo principale, dunque, della violenza psicologica è quello di mettere a “tacere”, non solo in senso stretto ma anche in senso lato: chi la subisce non comprende più cosa davvero pensa di sé, cosa vuole, desidera, qual è la propria volontà.

Come è possibile arrivare a “violare” così profondamente l’altro/a?

Può sembrare ci sia bisogno di chissà quali strategie o “stregonerie” e invece a ben vedere possono essere esempi di violenza psicologica

  • frasi denigratorie e svilenti: “non vali nulla”, “non riesci a concludere niente”, “sbagli sempre” …
  • piccoli e grandi gesti: sbattere una parta, rompere dei piatti, lanciare oggetti durante un litigio (soprattutto quando è la modalità principale e ripetuta di litigare); minacce verbali (dal minacciare di fare male all’altro o ai suoi cari, alle forme più gravi in cui si minaccia di fare male a sé stessi)
  • controllare ripetutamente e insistentemente il telefono/posta/mail; seguirne gli spostamenti; pretendere di sapere e impartire cosa sia “giusto” o “non giusto” fare; chi frequentare e chi no…
  • allusioni, riferite al modo di vestire o di truccarsi, ad esempio;
  • colpevolizzazioni: “sei tu che mi hai fatto arrabbiare…”, “te la sei andata a cercare”, “come eri vestita…” (frase che purtroppo si sente dire spesso una donna che ha subito violenza fisica), “potevi evitare quel comportamento che sai darmi fastidio” etc etc…
  • isolamento: si cerca di costruire il “deserto” intorno alla persona così da essere il solo punto di riferimento. Si denigrano amici, colleghi e perfino i familiari. Si pretende di sapere chi è degno o no di essere frequentato.

Riconoscerla: due importanti caratteristiche

Ci si potrebbe chiedere, dunque, se aver detto una frase “di troppo” in un momento di rabbia, o provare gelosia per il partner, possono di per sé, essere considerate violenza psicologica.

Qualunque sia la modalità o il contesto in cui si esprime, la violenza psicologica si basa su due caratteristiche che la rendono “inconfutabile”:

  • la modalità asimmetrica di pensare la relazione
  • la ripetitività.

Cosa vuol dire “relazione asimmetrica”?

Vuol dire che alla base c’è un particolare modo di vivere, pensare, di dare significato al modo di stare con l’altro/a che possiamo definire “asimmetrica” perché nell’immaginario uno prevale sull’altro, non si è allo stesso piano, in termini di rispetto, confronto, rapporto. Prevale la dinamica del “potere”, del “possesso” [1].

La violenza psicologica, dunque, così come qualsiasi altra forma di violenza, è espressione di un particolare modo di intendere la relazione e pertanto è qualcosa che va oltre l’essere esercitata da un uomo o da una donna.

Ogni qual volta, quindi, si avverte di vivere una condizione di asimmetria in una relazione è importante stare “in guardia” e riconoscere le potenzialità di una situazione che potrebbe portare ad una violenza psicologica, posto che, per quanto è stato precedentemente riportato, non è violenza solo lo schiaffo o la frase fortemente denigratoria, ma anche piccole, silenti, e ripetute espressioni che mirano a svilire, denigrare, offendere.

Altra caratteristica, dicevamo, è la “ripetitività” del comportamento denigratorio. Seguire schemi reiterati che si ripetono e si rafforzano nel tempo vuol dire iniziare da piccole cose, piccoli gesti, come telefonate insistenti per sapere dov’è il partner e con chi, se è a casa o meno, per poi esercitare un controllo sempre maggiore (fortissima gelosia, pedinamenti, ma anche accessi al telefono o al computer del partner, solo per fare degli esempi), fino a passare alle denigrazioni e umiliazioni verbali. La frequenza e la reiterazione di questi comportamenti creano insicurezza, ne minano l’autostima. Si può arrivare a pensare di meritare quelle risposte, a credere in ciò che viene detto, a colpevolizzarsi. Ed è questo senso che il comportamento diventa una “violenza”. Perché “viola” un confine, va oltre, tocca e lenisce aspetti profondi della persona.

Come mai allora è così difficile “uscirne”? come mai non si interrompono relazioni che (agli occhi di chi guarda dall’esterno) sembrano chiaramente così tossiche e dannose?

La risposta potrebbe ritrovarsi in un’altra caratteristica di queste modalità relazionali: la circolarità. Ai momenti di grande svilimento e offesa seguono spesso fasi di riconciliazione, di equilibrio, di richiesta di “perdono” (quella che viene definita anche “luna di miele”) che vanno a ri-consolidare un legame che diventa sempre più difficile da sciogliere o da riconoscere come non sano.

Le “maschere” della violenza psicologica nella coppia

Abbiamo visto quanto i comportamenti attraverso cui si manifesta la violenza psicologica siano spesso poco chiari, definiti, “mascherati” …

Ma a rendere il tutto ancora più “complesso” è il fatto che ad esercitare violenza psicologica, molto spesso, sia una persona a cui si è particolarmente legati affettivamente, da cui ci si aspetterebbe aiuto, sostegno, tutela, incoraggiamento. Questo confonde ancora di più, disorienta, complica il processo di riconoscimento… primo passo per un percorso di risoluzione del problema!

Ma la violenza psicologica è difficilmente riconoscibile anche perché non si esprime mediante “segni evidenti”: chi esercita violenza psicologica non lo fa attraverso gesti eclatanti, come può avvenire con una violenza fisica che lascia un segno tangibile (pensiamo al livido, al gonfiore etc…). è molto più subdola, meno “visibile” ma altrettanto dolorosa per chi la subisce. Si maschera, verrebbe da dire, dietro apparenti buone intenzioni che hanno però ben altri obiettivi. Pensiamo alla gelosia eccessiva, esempio “tipico” oserei dire, di violenza psicologica. Spesso chi è geloso, spiega, giustifica e legittima, la propria gelosia definendola una “espressione d’amore”, una “dimostrazione di quanto si tenga all’altro/a”, di “volere solo il suo bene”. Ma è davvero così? O si cerca, forse, di rispondere a bisogni intimi, profondi e personali di vivere una relazione, quella d’amore, basata sul possesso, il controllo e il potere? Chi impronta le proprie relazioni affettive sulla dinamica del potere non riesce ad accettare cha la persona sia “altro da sé”.

Uscire dalla violenza psicologica: si può?

Abbiamo visto come la violenza psicologica sia un fenomeno particolarmente complesso. E in ottica di complessità[2] chi scrive guarda al fenomeno.

È frequente pensare al problema in termini di dicotomia tra vittima e carnefice, tra chi esercita e chi subisce, tra chi agisce e chi soccombe. Ma è davvero così? Pensare in questi termini è esso stesso pericoloso, perché può dare la sensazione che chi è vittima, appunto, sia in una posizione di subalternità (ancora una volta!). Si rischia insomma di cadere nella tentazione di rappresentarsi una relazione in cui c’è una vittima impassibile e passiva, che non può fare nulla per cambiare la sua situazione…dunque neanche uscirne?

Pensare in termini di complessità vuol dire invece pensare non in termini duali e dicotomici, quindi escludenti, ma aprirsi alla possibilità di pensare alla violenza psicologica quale espressione di una precisa modalità relazionarsi e una certa rappresentazione della relazione. Questa rappresentazione coinvolge entrambi i componenti della coppia.

Tra le parti coinvolte infatti si crea una dinamica il cui nodo è molto difficile da “sciogliere”. È complesso uscirne perché quella ripetitività di cui si parlava prima, va a minare nel profondo l’autostima, genera vergogna, imbarazzo. Spesso non se ne parla con nessuno, alimentando quell’isolamento, che crea campo fertile alla violenza stessa. Mina quell’autostima che non permette di mettere in discussione la relazione e se stessi all’interno della relazione, finendo per essere sempre più dipendenti dall’altro e rendendo complesso e difficile prendere le distanze.

Uscirne allora è possibile nel momento in cui, non solo si prende consapevolezza di ciò che si sta vivendo, ma si accetta di recuperare quelle parti sane, vitali, si fa strada la motivazione a ri-scoprire quelle parti che desiderano vivere relazioni e modalità relazionali improntate al rispetto e alla stima di sé stessi e dell’altro.

Questo si traduce non solo nel porre uno sguardo particolare verso chi si trova nella posizione di subire una violenza, ma apre alla possibilità di un percorso, personale, anche di chi riconosce il proprio comportamento inadeguato all’interno della relazione, perché non benefico né per sé stesso né per l’altro/a. Provare gelosia, per tornare ad un esempio molto frequente, può essere certo espressione dell’amore provato, ma esserne “accecati”, completamente travolti, è altrettanto segno di modalità disfunzionali di esprimere questo amore.

Uscire da una modalità relazionale violenta significa aprire spazi di pensiero sulle radici da cui genera la violenza, rispetto al proprio modo di significare sé stessi e l’altro/a, sul modo di intendere e connotare significativamente ed emozionalmente relazioni, ruoli, aspettative rispetto al proprio modo di vivere e pensare le relazioni.

Riconoscere di vivere una situazione problematica vuol dire dargli un nome, ma anche pronunciare e verbalizzare quel problema: parlarne! Parlarne per uscire dall’isolamento, per interrompere e recidere i fili che imbrigliano e legano. Da soli è tutto molto più buio, oscuro, instabile. È importante chiedere aiuto, non solo a familiari e amici, là dove si può, ma anche, a chi ha precise competenze in questo settore.


[1] L’asimmetria all’interno di una relazione è più evidente, culturalmente e socialmente, nel modo di pensare e dare significato all’essere maschio e femmina ed è alla base delle violenze così dette di “genere”. Il “genere” è un prodotto della cultura umana, rappresenta la costruzione culturale legata al sesso, è il significato sociale assegnato alle differenze sessuali. È come dire: maschio e femmina si nasce, uomini e donne si diventa.

[2] L’epistemologia d complessità si basa sull’idea che l’unica certezza è l’incertezza; la scienza quindi deve cambiare il proprio obiettivo e guardare agli eventi non per cercare linearità e sequenzialità ma per cogliere gli innumerevoli intrecci e le mille variabili degli elementi e le loro relazioni. Si pone dunque una maggiore attenzione alle differenze che si creano tra gli eventi, non tanto per coglierne le differenze (come nella logica del tipo o/o) ma le eventuali relazioni (tipico della logica del e/e)(Di Maria F., Formica I., 2009).

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