Saper dire “no” spesso costa molta fatica.
Quante volte si fantastica sulla possibilità di pronunciare questo semplice monosillabo; quante volte ci diciamo “la prossima volta dico no!” e poi… nulla! Esce un sonoro “sì!” E quanta frustrazione ne deriva…
- Il posto di lavoro credo sia il luogo dove maggiormente si verifica questo “arcano fenomeno” del pensare una cosa e poi ritrovarsi a dire l’esatto opposto: una riunione oltre l’orario stabilito, un favore ad un collega, una mansione che non è di stretta competenza e che rallenta i tempi del proprio operato, un lavoro da svolgere secondo modalità che non si condividono…
- In famiglia: quanti genitori non sanno dire di no ai propri figli o al contrario, quanti figli non sanno dire di no ai propri genitori…Gli esempi potrebbero essere innumerevoli anche qui e andare da situazioni più leggere, come (ra)accogliere i vestiti sporchi nel fine settimana per restituirli puliti e stirati la domenica sera a costo di non sistemare i propri, ad altre più impegnative e importanti come la gestione a tempo pieno dei nipoti o offrire supporto economico anche quando non si può. Così come per un figlio ci possono essere situazioni familiari che possono essere percepite come insindacabili (penso ai classici pranzi delle feste per fare un esempio…) fino ad altre più complesse in cui sono in gioco importanti scelte di vita (un lavoro in un’altra città ad esempio, o una relazione non gradita…etc. etc.)
- Nei rapporti di amicizia/coppia: eccoci disponibili per favori che non condividiamo o che ci mettono in difficoltà, o perché no, anche a vivere l’intimità secondo i tempi e la modalità dell’altro, più che i propri…
In qualsiasi forma di relazione si può, in fondo, avere difficoltà a dire di no…
Ma come mai saper dire di no è così difficile?
Dire di no vuol dire affermare di avere dei bisogni, propri, personali, magari diversi da quelli dell’altro. È porre un confine. Ma non siamo sempre consapevoli di ciò. Anzi…
Spesso dire di no vuol dire provare uno strano fastidio nello stomaco, si sente disagio, si attivano fantasie più grandi noi… E se l’altro si offende? O peggio, si arrabbia? E se quel rapporto poi non funzionasse più o si incrinasse?
La fantasia la fa da padrona, andando ad ingigantire le potenzialità della situazione.
Sul piano reale, se ci si pensa, il “no” è una parola così piccola, apparentemente semplice da pronunciare.
È così breve e semplice da essere tra i primi monosillabi pronunciati dal bambino. Se si osserva un bambino di un anno e mezzo e poco più, a qualsiasi domanda o proposta risponderà con un sonoro NO che genera una chiara soddisfazione, e lo ripete, lo ripete ancora. Ne trova immenso piacere. Il piacere ricavato dall’esprimere i propri bisogni.
Cosa succede poi? Perché si perde questa “capacità” a dire no e stare bene con sé stessi, senza sentirsi pervadere da un gigantesco senso di colpa, senza che fantasie enormi e paurose pervadano la nostra mente?
Succede che “scopriamo” di essere diversi dall’altro, ma anche che l’altro è diverso da me e ha sue idee, suoi giudizi e un proprio modo di vedere il mondo, in cui siamo compresi anche noi.
Quando si inizia a capire che non solo noi abbiamo un giudizio sul mondo, ma lo hanno anche gli altri, e soprattutto gli altri significativi da un punto di vista affettivo, a cui si è più legati, sopraggiunge una pre-occupazione rispetto al loro giudizio.
Sono i tasselli della nostra autostima, della costruzione della nostra struttura interiore. Ecco allora che diviene importante che questo giudizio “esterno” sia buono. Perché costituisce una continua conferma su quanto valiamo, su quanto stiamo facendo bene… ma ci si potrebbe chiedere: bene per chi? Per l’altro o per me stesso?
Dire di no: possibili conseguenze nelle relazioni
Mi viene in mente a questo proposito una storia per bambini, centrata sul tema delle emozioni.
I personaggi sono sei folletti, rappresentanti le sei emozioni di base (gioia, rabbia, tristezza, paura, disgusto, stupore), che vivono nel cuore di un bambino. Creano parecchi “problemi” al bambino in questione, tanto da essere preso in giro dai compagni perché ritenuto “troppo sensibile”. Il piccolo decide così di non voler provare più emozioni e i sei folletti escono dal suo cuore o ciascuno va in cerca di un nuovo posto dove stare, il “paese perfetto”.
Mi colpiva in particolare l’esperienza vissuta dal folletto della rabbia, il quale si imbatte in un paese in cui vige la regola del “non si può dire di no” e ritiene sia esattamente ciò che fa per lui. Inizia a viverci e a familiarizzare con i suoi abitanti e scopre che accadono cose davvero strane, se non assurde, tutte giustificate dal fatto che nessuno possa dire di no (non si può fare lezione a scuola e imparare cose nuove perché non si può interrompere la ricreazione, non si finisce una cena, restando affamati, perché uno dei commensali decide di voler fare altro etc. etc.…).
In breve questo posto “dei sogni” diviene una vera prigione e genera una grandissima rabbia nel folletto, che urlando va via esclamando che “non si può vivere felici in un posto dove nessuno fa ciò che davvero desidera perché si deve occupare di ciò che desiderano e vogliono gli altri!”.
Una storia, breve, ma dice molto. E soprattutto inserisce una parola chiave: la rabbia.
Perché vivere secondo le esigenze, i desideri, i ritmi, i giudizi e la volontà solo degli altri, senza mai dire di no appunto, vuol dire inevitabilmente generare e alimentare una profonda rabbia. Una rabbia che spesso non è così così evidente e consapevole, ma si maschera, perché appunto, non si può dire di no!
Si maschera, ma si mostra sotto altre sembianze:
- come i malesseri allo stomaco di cui si diceva prima
- la continua sensazione di insoddisfazione
- la frustrazione
- più frequentemente si cela dietro l’ansia
Genera ansia voler riuscire a far stare tutto dentro una sola giornata; genera ansia stare nella fantasia di riuscire bene in tutto ciò che si fa, senza così scontentare nessuno. Si può provare ansia perché si teme possano giungere altre richieste, a cui non si riesce a dire di no, a porre un limite, un confine.
Sono tutti piccoli pezzetti che vanno a costruire le modalità con cui si sta insieme agli altri; il dire sempre di sì ha inevitabilmente dei risvolti a livello delle relazioni. Da una parte ci sarà infatti chi si mostrerà particolarmente disponibile e dall’altra chi, in qualche modo, potrebbe “fare abitudine” a questa disponibilità e attivare anche modalità di pretesa. Si rischia di attivare una dinamica relazionale in cui tra chi chiede e chi dà si può creare un “incastro perfetto” tipo ingranaggio dove ogni parte si “incastra” perfettamente con l’altra.
Per cui, se si è sempre presenti alle cene e alle feste di Natale, questa presenza potrebbe essere data per assodata, quasi scontata. Se al lavoro si accetta sempre di assolvere anche mansioni o assumere ruoli che non sono pertinenti, questo potrebbe essere tacitamente “preteso” nel corso del tempo.
Dall’altra parte, si può essere così abituati a certe modalità, a sentirsi chiedere delle cose in un certo modo, da non farci neanche più caso. In un circolo “vizioso” davvero molto difficile da interrompere.
Ma il folletto del libro, ad un certo punto, comprende che vivere in un mondo dove si dice sempre di sì è un mondo dove si fa felici gli altri, ma dove si perde di vista se stessi e la propria felicità.
Come si fa a dire di no?
Credo che la domanda, “sorga spontanea” a questo punto.
Ma proverei a cambiare la prospettiva da “come si fa” a “cosa vuol dire imparare a dire di no”?
Pensare in termini del “fare” induce la fantasia che basta seguire poche, semplici “regole” e il problema potrebbe essere risolto… quello a volte può aiutare, certo, ma alla luce di quanto riportato, potrebbe volerci qualcosa di più…
Potrebbe esserci bisogno intanto di acquisire maggiore consapevolezza rispetto al proprio modo di vivere e di stare in relazione agli altri. Chiedersi:
- se e in quali particolari situazioni capita di avere timore di dire di no?
- quante volte facciamo cose che in realtà non desideriamo, a discapito dei nostri desideri?
- In quali occasioni si fa fatica a mettere un confine tra sé e gli altri?
Porsi delle domande può aiutare a iniziare un viaggio verso la consapevolezza. Aprirsi a nuove prospettive, provare a vedere le cose da angolazioni diverse… e chissà, iniziare a vivere anche relazioni impostate diversamente…
Cambiare vuol dire necessariamente muoversi, mettersi in cammino, per tornare a noi stessi.
Così come il folletto della storia, alla fine del suo viaggio, comprende che il posto perfetto è in realtà dove ha sempre vissuto, nel cuore del bambino, insieme alle altre emozioni.
Non sempre è facile intraprendere alcuni viaggi in solitaria. Si può, qualora lo si ritenga necessario, anche chiedere un aiuto specifico e competente, in questo caso di tipo psicologico, che offra una competenza qualificata, che affianchi passo dopo passo nel lavoro di ri-scoperta di nuovi modi di stare con sé stessi e con gli altri.
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